End of waste: quando si può recuperare un rifiuto?

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L’economia circolare è l’obiettivo della più recente legislazione europea in tema rifiuti: recupero e riciclaggio sono concrete parole d’ordine per ogni azienda. Eppure, concetti cruciali come quello di end of waste ancora restano sospesi tra la normativa comunitaria e quella nazionale, compromettendo la capacità degli operatori a riutilizzare i propri materiali di scarto, nonché il raggiungimento degli obiettivi della stessa normativa.

 

La gerarchia dei rifiuti

Vero fulcro dell’intera Direttiva “Quadro” 2008/98/CE e della successiva normativa ambientale, il legislatore comunitario definisce una gerarchia nella gestione dei rifiuti al fine di evitare o ridurre quanto più possibile la produzione stessa dei rifiuti. All’art. 4, recepito tal quale nella normativa nazionale dall’art. 179 del D.Lgs. 152/2006, si individuano le seguenti azioni in ordine di priorità:

  1. prevenzione;
  2. preparazione per il riutilizzo;
  3. riciclaggio;
  4. recupero di altro tipo, ad esempio il recupero energetico;
  5. smaltimento.

In linea di principio, dunque, una corretta e virtuosa gestione dei rifiuti attua tutte le strategie possibili per non scendere lungo questa gerarchia, mantenendosi al di qua del confine tra prodotto o bene (non-waste) e rifiuto (waste). Quando proprio non si riesce a evitare di produrre rifiuti, ecco che subentra la possibilità di reimpiegarli attraverso operazioni di recupero che ne predispongano il riutilizzo: con questa finalità, estremamente concreta, nasce il concetto di end of waste.

 

Sottoprodotto ed end of waste: quale differenza?

Insieme al sottoprodotto, l’end of waste rappresenta un non-rifiuto cioè un materiale che, in virtù di precise caratteristiche e previo il rispetto di determinate condizioni, pur essendo un materiale di scarto ottenuto da un processo produttivo, non è sottoposto alla stringente normativa ambientale. Se pure sottoprodotto ed end of waste soggiacciono alla volontà del produttore di disfarsene, conservano ancora un propria utilità – e dunque un valore anche economico – per lo stesso o per altri processi produttivi, dunque rientrano, in vario modo, nella normativa civilistica dei “beni”.
Mentre il sottoprodotto è un bene fin dal momento stesso in cui è prodotto, ovvero non ricade mai nella definizione di “rifiuto”, l’end of waste è, prima di diventare tale, rifiuto a tutti gli effetti fintantoché non è sottoposto a un’operazione di recupero: da questo momento in poi, termina la sua qualifica di “rifiuto” e il materiale torna a essere un bene.
Traducibile in italiano con “Cessazione della qualifica di rifiuto”, di fatto l’end of waste indica non il risultato puntuale ma il processo stesso che permette il ritorno alla qualifica di “bene” del materiale recuperato.

 

End of waste: a quali condizioni un rifiuto cessa di essere tale?

All’articolo 184-ter, la versione oggi vigente del D.Lgs. 152/2006 recepisce le condizioni dettate dalla Direttiva 2008/98/CE. Riprendendo in parte la struttura dell’abrogato articolo 181-bis, che definiva il rifiuto recuperato in quanto “materia prima secondaria (mps)”, e l’attuale disciplina del sottoprodotto, il Testo unico ambientale individua le condizioni che deve rispettare un end of waste, ovvero un rifiuto che è stato recuperato attraverso operazioni idonee, incluse la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio:

  • La sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
  • Esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
  • La sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
  • L’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.

Condizione imprescindibile è il fatto che tale rifiuto sia stato sottoposto a un’operazione di recupero, che può essere rappresentata anche dal semplice controllo dei rifiuti per accertarsi che soddisfino i criteri sopra elencati. Poiché sempre di attività di recupero si tratta, è necessario e vincolante che sia svolta da un soggetto autorizzato, come ribadito dalla sentenza di Cassazione Penale n° 16423/2014.

 

End of waste: chi può definire i criteri specifici?

L’articolo 6 della Direttiva 2008/98/CE, paragrafo 4, prevede la possibilità per le autorità competenti dei singoli Stati membri di rilasciare autorizzazioni end of waste “caso per caso” a fronte della mancanza di regolamenti specifici comunitari.
Proprio per l’assenza di indicazioni specifiche per la prassi della cessazione della qualifica di rifiuto, il Ministero dell’Ambiente ha emanato la Nota del 1° luglio 2016 n° 10045: Disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto – Applicazione dell’art. 184-ter del D.Lgs. 152/2006,  affermando come un’autorizzazione ordinaria o di un AIA di un impianto di trattamento dei rifiuti possano definire i criteri in base ai quali un rifiuto, in seguito a determinate operazioni di recupero, cessa di essere qualificato come tale.

Tuttavia, tale presa di posizione del MATTM è andata in netto contrasto con quanto stabilito dall’art. 6 della Direttiva 2008/98/CE per la quale, come abbiamo ricordato poco sopra, solo lo Stato ha il potere di valutare i criteri di applicazione specifici dell’end of waste.
Per questo motivo, è intervenuta sull’argomento la sentenza n°1229 del 28 febbraio 2018 del Consiglio di Stato, che ha negato perentoriamente tale possibilità, affermando che enti e organizzazioni interne allo Stato non possono in alcun modo vedersi riconosciuto il potere di “declassificazione” dei rifiuti caso per caso in sede di autorizzazione. Secondo il Consiglio di Stato, è esclusiva competenza dello Stato potersi esprimere sulla eventuale cessazione di qualifica di rifiuto, attraverso il Ministero dell’Ambiente; nessun altro ente interno allo Stato può avere competenze concorrenti o sussidiarie in materia.

 

End of waste: una normativa “critica”

Su tale concetto è dovuta tornare, di recente, la Corte di Giustizia europea con la sentenza del 28 marzo 2019, relativamente a un parere reso alla Provincia di Lodi dal Ministero dell’Ambiente circa le modalità per autorizzare il reimpiego di fanghi da depurazione per produrre gessi da defecazione.
La Corte ha dapprima evidenziato una “possibile criticitàinsita dell’articolo 6 della Direttiva 2008/98/CE, che autorizza gli Stati membri ad “adottare misure relative alla cessazione della qualifica di rifiuto di una sostanza o di un oggetto, senza tuttavia precisare la natura di tali misure”. Per evitare che tali misure specifiche possano far venir meno la “protezione che il diritto che disciplina i rifiuti garantisce per quanto riguarda l’ambiente e la salute umana”, la Corte ribadisce l’assoluta necessità che tali misure garantiscano il rispetto delle condizioni elencate dall’articolo 6, comma 1, della Direttiva, come recepite dall’art. 184-ter del D.Lgs. 152/2006.
Affermando inoltre che:

gli Stati membri possono prevedere la possibilità di decisioni relative a casi individuali, in particolare sulla base delle domande presentate dai detentori della sostanza o dell’oggetto qualificati come “rifiuti”, ma possono anche adottare una norma o una regolamentazione tecnica relativa ai rifiuti di una determinata categoria o di un determinato tipo di rifiuti”,

la Corte di Giustizia europea ammette la possibilità che gli Stati membri possano “rinunciare ad adottare una normativa relativa alla cessazione della loro qualifica dei rifiuti”, soprattutto quando sussistono dubbi circa la possibilità che tale rifiuto possa recare danni all’ambiente o alla salute umana una volta recuperato. Tutto questo, nella consapevolezza che una simile rinuncia ostacola, inevitabilmente, il raggiungimento degli obiettivi della Direttiva 2008/98/CE.

 

End of waste: come orientarsi?

Fermo restando le condizioni che un end of waste deve rispettare per essere tale, come specificate dall’art.184-ter del D.Lgs. 152/2006, nello stallo persistente della normativa, a oggi non resta che far riferimento a:

  • i regolamenti comunitari ai sensi della Direttiva 2008/98/CE: Regolamento 2013/715/UE specificatamente ai rottami di rame; Regolamento 2012/1179/UE per i rottami di vetro; Regolamento 2011/333/UE circa alcuni tipi di rottami metallici;
  • i decreti ministeriali: M. Ambiente del 14 febbraio 2013 n° 22, limitatamente ai combustibili solidi secondari (CSS); D.M. Ambiente del 28 marzo 2018 n° 69 per i conglomerati bituminosi;
  • la conformità al D.M. 5 febbraio 1998.

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